20 Ottobre 1944 da Luigi Viganò


Il calendario dice autunno, il tempo atmosferico primavera.  Fuori dalla finestra, che la mamma aveva stipato di materassi, lenzuola ecc. (nella cultura casalinga di allora una giornata simile “doveva” per forza essere dedicata alle pulizie di fino) riuscivo a vedere una fetta di cielo terso dall’inusuale venticello. Il colore? Blu altaquota, non inusuale nella Milano che fu. Per gli aviatori di allora,  era la giornata ideale da “doversi” usare per centrare tutti i bersagli e recuperare qualche encomio (sarebbe meglio la medaglia così la vedono tutti, ma per averla occorre essere eroi e non si è eroi se si centrano gli obbiettivi in scaletta. Si è solo bravi).  Puntuali , arrivano le sirene.
Come in Palestina oggi, l’Italia di allora è percorsa da soldati che hanno l’incarico politico di “liberarti”. Da Hamas o dal Fascismo non fa differenza.
Come la Palestina oggi, l’Italia di allora è divisa territorialmente ed i “liberati” stanno un  poco meglio dei “liberandi”. Entrambi però accomunati da un terrore spalmato in ogni angolo dell’italico suolo: quello per le bombe che, non ancora “intelligenti”, non  riconoscono la differenza. Come i razzi di Hamas  non riconoscono i pochi arabi integrati in Israele. E come i missili di Israele  non riconoscono i pochi palestinesi che di Hamas proprio non ne vogliono sapere.  E puntuali dopo le sirene, arrivano le bombe. Le sganciano enormi  aerei che, se ben ricordo, si chiamavano Liberator: un nome, una garanzia!
Vengono da nord e seguono una rotta ben visibile: la ferrovia che da Lecco va verso il centro di Milano e, a lato della  ferrovia,  il viale Monza che da Monza e Sesto S. Giovanni punta diritto come una schioppettata verso Piazzale Loreto.
Scendendo verso sud, verso il centro di Milano, la parte destra è piena di grandi fabbriche tra le quali Breda, Pirelli, la Manifattura Tabacchi. La parte sinistra è già città. Periferica ma città a tutti gli effetti.  I Liberator arrivano scortati dalla quasi indifferenza della popolazione che ritiene, come sempre, che gli obbiettivi sono le fabbriche. Invece no. Cominciano il bombardamento della parte “civile” della città e centrano la scuola di Precotto. Nelle cantine della scuola, pomposamente chiamate “rifugio antiaereo” sono stipati 150 bambini. La bomba non esplode ma danneggia seriamente alcune strutture portanti che crollano. Arriva trafelato Don Carlo che s’infila tra le macerie con celerità inaudita. Il suo capo ha sempre detto: “L asciate che i pargoli vengano a me”, ma il don è disobbediente per natura e va lui verso i pargoli. Dopo oltre un anno di bombe, la praticaccia gli dice che quello che non è crollato ora andrà giù a minuti. Costruisce una  specie di filo d’Arianna tra i cunicoli che consente a tutti i bimbi di uscire e, come nei copioni migliori, dopo un attimo crolla tutto. Fortunati i bambini di Precotto! Ma non sanno che Marte ha preparato il suo altare sacrificale più a sud, a un km di distanza.  Fortunato anche Don Carlo, ma non sa che il suo capo lo chiamerà a sé dopo manco tre anni, dalle amate montagne della Valtellina per un stupido incidente alpinistico.
Marte addobba il suo altare sacrificale nella scuola di Gorla, altro quartiere periferico della città. Anche lì i bambini (200) sono stipati nel rifugio antiaereo. Anche lì cade la bomba che sfonda il tetto, si infila nella tromba delle scale (si, proprio lei, quel bel toboga largo che ti invitava, al suonar della campanella,  a scenderlo a perdifiato garantendoti per il giorno dopo una tirata d’orecchi da parte della maestra che dall’alto controllava i più esagitati) e va ad esplodere tra le cantine/rifugio ed il piano terra. Nessuno si salva. Sfortunati i piccoli di Gorla. E, uniti nella sfortuna, anche i loro maestri e bidelli.
Sfortunati anche i piccoli di Gaza che insieme a parenti, maestri, medici si rifugiano nelle case dell’ONU, adibite a scuola, infermeria, biblioteca, magazzino per tutto quel misero ben di dio che si riesce a stipare. Tra quelle mura piene di umanità e mercanzia, ne manca solo una e, guarda caso, la più importante: la “garanzia” del rispetto della vita. Ma loro, quelli che ci sono stipati dentro, non lo sanno. Anche lì arriva la bomba “garantita” intelligente dalla tecnologia moderna.
Nella sua breve ed incompiuta parentesi scolastica, anche Davide è fortunato. Anzi, fortunatissimo. Riesce a sparpagliare tra la comunità semi positivi di vita che ora, a distanza di anni, germogliano. Nel frattempo, Marte continua imperterrito ad addobbare innumerevoli  altari del sacrificio. E non sa, Davide,  che il suo altare è pronto a pochi  kilometri da Verona, in quel di Bologna, in una stazione ferroviaria. E non sa neppure che attraverso il suo sacrificio, i suoi semi traggono la forza per germogliare.
Ma questa è tutta un’altra storia…..

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