Riflessione n.14 da Anonimo


RIFLESSIONE
Qualcuno ci esorta a parlare del ricordo del primo amore.
Possiamo contarli: il primo, il secondo, l'unico, il decimo, l'ultimo: se è amore, non cambia. Può essere diverso il contesto, il luogo, il tempo, anche la lingua a volte, ma l'intensità delle emozioni è sempre uguale, sembra sempre la prima volta, anche se solo passeggi con la mano nella mano.
Non cambia il cuore che batte forte al primo bacio, non cambia la voglia di carezze, il sorriso che ti accompagna durante la giornata e il camminare ad un metro da terra con la testa nelle nuvole: che tu abbia 20, 40, 50 o settanta anni.
Hai voglia di fare le capriole, di correre, di cantare, di gridarlo al mondo: Io amo!!
Non ha senso parlare del primo amore, ha senso parlare dell'amore e del bene che fa all'anima.
Peccato che a volte lo calpestiamo, lo distruggiamo o non siamo capaci di coltivarlo.
Lungi dal voler fare un trattato, vi dò qualche spunto di riflessione.
Riflessione n.13 da Luigi Viganò
AUTOBUS z420.
Il primo temporale dell’anno si trasforma in breve in una buriana di vecchio stampo, alla quale l’Italia non è più abituata. Ora sono di moda i tifoni “quasi” tropicali.
Con la scala mobile il nostro viaggiatore risale gli inferi del metrò ma non esce “a riveder le stelle” giacchè tuoni, fulmini e scrosci lo accolgono in superficie. Visto l’alto numero di passeggeri in attesa sotto la pensilina, può presumere che il bus è già abbondantemente in ritardo. Infatti, attende qualche altro minuto e finalmente si può avviare all’arrembaggio.
La maggior parte dei pirati è gente più che comune, venuta in città dall’hinterland per qualche acquisto domenicale, per qualche appuntamento amoroso nell’anonimato della grande metropoli, per ritrovare amici, familiari o conoscenti che, da terre lontane, vivono in Italia la vita grama dell’immigrato. E qualche indigeno che frequenta la città per gli stessi motivi. Per costoro, siano uomini o donne, l’arrembaggio è un gioco. Per lui no. Non ci è più abituato e non ha più l’età per partecipare al gioco.
Affiora un ricordo adolescenziale, vecchio di oltre mezzo secolo. A scuola non ci andava sul tram ma appeso, en plein air, fuori (da qui il detto milanese “taches al tram” attaccati al tram, con il quale si invita qualcuno a non porre richieste assurde, a prenderla come viene). E quindi opta per l’attesa e l’eventuale rischio di riprendere l’esperienza giovanile. Nel calcolo del dare/avere, è il male minore.
Mentre troller, borsoni, tracolle, borse in plastica del supermercato e borse in carta con pretese di eleganza griffata si sistemano all’interno dopo la compressione all’entrata, un nordafrico dalla voce tonante: “ Chi ha perso borsa?” Nessuna risposta. “Chi ha perso borsetta?” e la solleva sopra le teste di tutti. Una zingara, (o presunta tale) la voce da gallina strozzata: “E’ mia, è mia!” E poi, rivolta al nordafrico: “Grazie, grazie. Ma parla adagio, davanti c’è mio marito e se ci sente e se ne accorge, a casa mi picchia”. Fra i due un ammiccante sguardo. Tra gli altri passeggeri, un cicaleccio senza pause e nonchalance da consumati salottieri, un incrociar di complici sguardi.
Parte il bus, cala la tensione e aumentano gli scossoni; la fauna umana si calma ed assesta. In piedi nel corridoio, il nostro viaggiatore sorride mestamente tra sé, pensando alla rassegnazione con la quale la zingara accetta l’eventuale punizione.
Un discreto bussare alla spalla lo fa volgere. Un armadio nero si alza dal sediolo e seriamente, con inflessione francese: “Prego, si accomodi.” Al nostro, chissà perché, anziché un grazie scappa un merci. Tanto basta per sentire che il francafrico prima di venire in Italia è stato in Francia. Fermandosi anche a Parigi. Ma non gli piaceva ed ha preferito l’Italia, dove (testuale) si lavora peggio ma si studia meglio. Boh! Continuano a chiacchierare dandosi del lei, con argomenti e modi più da Pendolino che da bus z420. Il francafrico rompe l’etichetta con un ciao prima di scendere.
Oltre a lui sono scesi in parecchi e cala quello che nel terzo millennio viene chiamato “inquinamento acustico”. Però il nostro si sente infastidito da una parlata a raffica di una nera con i capelli rasta che discute al cellulare con chissà chi e chissà dove. Nelle mani un altro cellulare…..della serie duu is mèi che uàn. Sale il tono e la zingara, seduta lontana ma di fronte, a gesti la invita ad abbassare il volume. Detto, fatto. Ma poco dopo sale di nuovo, la zingara senza indugio si alza e con altri modi la convince a zittirsi. Al fianco del nostro, siede un topolino asiatico. Adulta, ma delle dimensioni della ragazzetta nuda in fuga da Saigon durante la guerra del Vietnam, immortalata in una foto che sta bene al fianco della Gioconda al Louvre e anche all’Ultima cena in Santa Maria delle Grazie a Milano. Questo topolino dallo sguardo pudico ed un sorriso ancora più pudico seminascosto dalla manina a mezza bocca, tutta a modino che solo certe asiatiche sanno fare, lo guarda e sussurra: “Abbi pazienza, siamo donne…..” Un altro indigeno (uno dei pochi) fa compagnia al nostro ed interviene: “Sì, ma rumpenn i ball…” Il nostro, di rimando: “Chi, queste?” E lui, serio e misogino: “ No no. Tute le done rumpenn.” Il topolino asiatico continua a sorridere con lo stesso sorriso: non capisce il dialetto.
Nel frattempo la zingara ha un attacco di vomito fortunatamente non concluso. Vomito di gravidanza. Interviene un ragazzetto alto e secco, uomo nello scheletro ma non nei muscoli e accudisce la mamma con un surplus di fazzoletti, consolandola in italiano. Operazione molto discreta, con un occhio alla mamma ed uno là avanti, mica che lo veda il padre e riservi a lui la razione giornaliera di sberle educatrici che il caso avrebbe destinato alla donna: non è da uomini aiutare le donne, in special modo nelle cose esclusivamente “da donne”!! Altrimenti la tradizione dove andrà mai a finire!
La rasta riprende a parlare a raffica con una conterranea altrettanto rasta, fino a quel momento sonnacchiosa. Si preparano a scendere e se ne vanno sculettando, con le borse della spesa ciondoloni lungo le braccia.
Nel silenzio il bus giunge al capolinea. Tutti giù ed una voce: “Toh! Va che bel! La fioca….”. Una più che improbabile nevicata marzolina ha in sé ancora il potere di sorprendere qualcuno degli indigeni ormai “naturalmente” innaturali…..
Anche il nostro viaggiatore è prossimo a casa.
Anche lui calca la neve e si ricorda i suoi trascorsi di sciatore.
Anche Davide lo è stato, sciatore.
Una constatazione mentre attraversa la piazza bianca di neve e grandine: su quel bus Davide ci sarebbe stato da dio. E si chiede: che umanità era quella che ha accompagnato Davide nel grande viaggio? Probabilmente, molto probabilmente simile. Gente comune con problemi ed aspirazioni comuni. Che si son detti fino alle 10,25? Probabilmente le stesse frasi.
E considera, tra lo scricchiolar dei passi, che il male peggiore che mina la convivenza di cittadini ed istituzioni è il metodo di colpire nel mucchio. E’ lì, nel mucchio della gente comune che il gioco delle trame eversive lacera il tessuto umano tra cittadini che insieme costituiscono una comunità, un Paese. Fino al punto di polverizzarlo.
I detentori del potere che si alternano sulla plancia di comando, continuano a livello di sicurezza individuale ad inventarsi sempre più improbabili e ridicole soluzioni. All’epoca del sequestro Moro, Cossiga pensava di stroncare l’eversione rossa e la delinquenza comune con le bande chiodate sulle strade. Oggi caldeggiano porte e finestre blindate, più lampioni e videocamere. In omaggio al nuovo e tecnologico secolo?
In merito alla sicurezza collettiva, continuano con il preistorico manganello ed intravvedono nella lotta di classe l’unico nemico da combattere. Neppure le mafie li preoccupano, figuriamoci i terroristi….
Pensa ch’è ora di tornare a fare storia. E anche di rivederla.
E gira la chiave nella toppa………

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